Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

venerdì 6 dicembre 2013

Gosia Turzeniecka

Piotrkow, 2013
acquerello su carta, cm 113 × 100
Courtesy l’artista 


Le opere di Gosia Turzeniecka ci coinvolgono in un “turbine di quotidianità”: ciò che vediamo è quanto l'artista ha colto in un preciso momento, in una determinata situazione, ed è perciò letteralmente irripetibile. Gosia infatti dipinge quasi sempre dal vivo, negandosi la possibilità di “rimeditare” il contenuto dei suoi lavori, non cede mai al fascino dell'immaginario o del fantastico e raramente dipinge a memoria o muovendo da fotografie, perché riporta su carta solo quanto ha personalmente visto e vissuto.

Osserva il variegato mondo reale e lo riproduce rapidamente, omettendo numerosi dettagli inessenziali, ma cogliendo con pochi tratti un singolo sguardo, un gesto, un'atmosfera. Vede gli amici, la famiglia, la sua casa e il suo Paese natale, gli animali nell'aia, gli edifici in città, i paesaggi in vacanza, trascrivendo il proprio vissuto su fogli di varie dimensioni e spessori – cartoncino, carta velina, pagine di quaderno – in un vortice di istantanee. Un campionario senza fine di oggetti, persone, situazioni: un flusso creativo incessante, una circolarità senza posa tra recezione e (ri)produzione, tra attenta percezione del mondo circostante e resa artistica, in un incalzare prosaico e pragmatico, ingenuo forse ma onesto, che non prende avvio da un'analisi teorica né mira a lirismi di maniera.

Queste caratteristiche si riflettono inevitabilmente sul piano tecnico. Da un lato, rispetto alle aspirazioni ideali, si potrebbe paragonare la pittura di Gosia a una macchina fotografica che cattura istantanee, dall'altro, rispetto agli esiti, l'analogia con la fotografia è del tutto inadeguata, poiché la figurazione è qui improntata all'immediatezza gestuale, alla drastica essenzialità cromatica e segnica, senza chiaroscuro né ombre. Gosia utilizza quasi esclusivamente china o acquerello nero su carta bianca (con alcune eccezioni, come nell'immagine di copertina), delineando le figure con tratti decisi, puliti e mai ridondanti. Anche la scelta della carta è una esplicita dichiarazione d'intenti: è un supporto agile, da viaggiatore, comoda en plein air, facilmente reperibile, poco costosa, non occupa troppo posto e soprattutto non richiede preparazioni particolari. La carta rispecchia una concezione non eternante dell'arte perché ha un ciclo di vita breve ed è esposta al deterioramento: è fragile e umile.

Nei suoi dipinti e disegni, la dimensione emotiva e psicologica è molto sfumata, se non del tutto assente, mentre domina sopra ogni altro aspetto la materialità del corpo, con la sua carica di sensuale (benché mai volgare) carnalità. Tale immanenza – a nostro avviso – scaturisce da una misteriosa sorgente d'ispirazione e si avviluppa intorno a un centro nascosto: la campagna, con la sua terra grassa, il suolo fertile… una campagna vissuta, ricordata e profondamente interiorizzata è l'orizzonte che accomuna gran parte dei suoi soggetti e circoscrive la sua estetica.

È quindi la terra, lavorata dalla lenta, cadenzata manualità del contadino, a conferire al tratto dell'artista eleganza e insieme concretezza, equilibrio e armonia da un lato, forza e peso dall'altro. Quel tratto vigoroso ma lieve, mai eccessivamente ricercato, esprime un intenso legame con la terra (natia), con la sinuosità e la consistenza delle zolle appena sarchiate, del terreno rivoltato da aratri, erpici e vanghe. Quella terra con la quale intrattengono un rapporto elettivo e viscerale non solo gli animali del suo ricchissimo catalogo agreste, ma anche le posture umane, i corpi flessuosi, specie femminili, sovente sdraiati (e addormentati) in un contatto integrale e fisico con il suolo.

Eppure questo baricentro magnetico non attrae l'artista verso proposte romantiche, fughe regressive, nostalgiche o utopiche. Ripulita da ogni facile spiritualismo, riesce a comunicarci la stabilità e il senso di protezione che caratterizzano la vita dei campi. Ma la pittura di Gosia, che si ama istintivamente perché non ha bisogno di spiegazioni, è naif solo in apparenza. Spalanca infatti una finestra su una delle più potenti e violente rimozioni dell'epoca contemporanea: la distruzione della “campagna” come metafora di un mondo, di una civiltà che progressivamente scompare.

Per la generazione di Gosia (l'ultima, in Occidente, ad aver vissuto in prima persona nell'infanzia la radicale trasformazione sociale che ha cancellato in un batter d'occhio una civiltà ancora intimamente contadina), il “palazzone” periferico, perfetto simbolo della conversione forzata di terreno agricolo in suolo edificabile, rappresenta la definitiva espulsione della campagna dallo scenario percettivo esterno, relegata ormai nei meandri dell'inconscio, fonte inesauribile di nostalgiche memorie e malinconie, oppure, come nel caso dell'artista, sorgente viva non solo di una precisa estetica, ma anche di una delicata spinta etica dalle valenze documentarie e inconsapevolmente salvifiche. Per questa ragione, l'opera scelta per la copertina è emblematica rispetto alla ricerca artistica di Gosia, sebbene, lo ricordiamo, presenti una gamma cromatica inconsueta nel suo repertorio, di norma in bianco e nero. Prendendo in prestito le evocative parole della scrittrice ungherese Magda Szabó (1917-2007): «Era estate, la sera era blu, verde, il cielo splendeva dei colori che conoscevo, gli stessi che avevo sempre visto a quell'ora».


***testo pubblicato in GIDM - num. 4, vol. 33, dicembre 2013***